Ogni anno sono circa in 60.000 a presentarsi ai test d’ingresso per i corsi di laurea in Medicina e Odontoiatria, ma i posti si aggirano complessivamente intorno ai 10.000. Di conseguenza sono circa 50.000 gli studenti che restano fuori. Un numero davvero esorbitante che fa ancora più scalpore se pensiamo che l’Ordine dei Medici e le associazioni di categoria lanciano, ormai da anni, continui allarmi sulla carenza di medici in Italia.
Storicamente la laurea in medicina era una prerogativa solo dei ceti più elevati, dapprima potevano accedere al corso di laurea solo i diplomati classici. È stato nel 1969 che l’ingresso alla facoltà fu garantito a tutti i possessori di diploma di maturità. L’accesso libero quindi provocò un aumento considerevole, se non addirittura spropositato, dei medici rispetto all’effettiva domanda nel nostro Paese. Fu così che, negli anni Ottanta, la comunità europea sentì di imporre un certo standard qualitativo all’istruzione universitaria, introducendo il concetto di numero chiuso. Inizialmente questo fu lasciato totalmente a discrezione dell’ateneo, in base alla disponibilità di posti, di docenti e di attività laboriatoriali e lezioni didattiche che era in grado di offrire. Fu nel 1999 che, in Italia, l’allora ministro dell’Università Ortensio Zecchino introdusse il principio della programmazione e dei test d’accesso per alcune facoltà scientifiche con un decreto divenuto poi legge. Da allora il test ha subito una serie di cambiamenti, ma non è mai stato abolito, nonostante permangano dubbi e perplessità che, puntualmente, si ripresentano ogni anno.
Gli aspiranti medici iscritti alla prova unica a livello nazionale sono stati 62.695 nel 2016 e 66.907 nel 2017, registrando un lieve incremento. Un trend inversamente proporzionale rispetto ai posti messi a disposizione negli ultimi due anni, 9.100 nel 2017 contro i 9.224 del 2016. Stabili invece quelli per Odontoiatria, 908 totali in entrambi gli anni.
In base ai dati dell’anno scorso, sembra che la città italiana in cui risulti essere più difficile studiare medicina sia Milano. Infatti, ad accedere nel capoluogo lombardo è circa uno studente su dieci (nel 2017 si sono presentati in 3.229 per un totale di 339 posti). Percentuale simile a Torino dove si sono presentati in 3.171 per 350 posti. Si scende ad uno su nove a Bologna dove si sono sfidati in 3.161 per 355 posti. A Napoli in 8000 hanno formato lunghe code per accaparrarsi uno dei 1.031 posti disponibili. Infine, a Palermo, 2.531 studenti si sono sfidati per 309 posti da matricola previsti nel capoluogo siciliano.
Secondo i dati di Almalaurea, i laureati in Medicina nel 2016 sono stati 7.882. La laurea da sola non permette l’accesso diretto alla professione, ma è propedeutica la Specializzazione, che impone un’ulteriore sbarramento essendo necessario un altro test d’accesso con posti disponibili decisamente inferiori. Nel 2016, ad esempio, per 6.133 posti per la specializzazione e circa 300 contratti regionali, i candidati che hanno effettuato il test sono stati 12mila.
Il problema principale che ne scaturisce è che il numero di medici che si immettono nel mondo del lavoro non è sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale.
In un recente comunicato la Fimmg (Federazione medici di medicina generale) e l’Anaao (sindacato dei medici dirigenti) hanno denunciato una situazione che, nel breve periodo, diventerà realmente drammatica: «Tra 5 anni a causa dei pensionamenti previsti e del mancato bilanciamento di nuove assunzioni, si stima che mancheranno all’appello 45mila medici, tra specialisti e medici di famiglia». Una forbice che si prevede si allargherà ancora di più fra 10 anni: «Nel 2028, infatti, dovrebbero andare in pensione 33.392 medici di base e 47.284 medici ospedalieri, per un totale di 80.676 unità». Dottori che non ci sarà possibilità di rimpiazzare, perché il numero dei neolaureati in medicina è del tutto insufficiente.
“ Le uscite anticipate dei medici dal servizio pubblico hanno varie ragioni, come la paura dell’innovazione organizzativa e tecnologica e di veder cambiare in peggio le regole del pensionamento, oppure – spiega il Presidente Fiaso, Francesco Ripa di Meana – il dimezzamento necessario dei posti di ‘Primario’, che ha finito per demotivare tanti medici a proseguire una carriera oramai senza più sbocchi”.
«Oggi i posti resi disponibili per le scuole di specializzazione sono complessivamente circa 6.500 l’anno, ma secondo le nostre stime ne sarebbero necessari almeno 8.500. A mancare nelle corsie, saranno a breve soprattutto pediatri, chirurghi, ginecologi e cardiologi».
Nei prossimi otto anni si prevede un’estinzione dei medici dei servizi sanitari di base, mentre gli igienisti si ridurranno del 93% e i patologi clinici dell’81%. Internisti, chirurghi, psichiatri, nefrologi e riabilitatori si ridurranno a loro volta di oltre la metà, anche se il maggior numero di cessazioni dal lavoro in termini assoluti si avrà tra gli anestesisti, che lasceranno in 4.715 da qui al 2025.
La soluzione del problema non sembrerebbe tanto, come da più parti auspicato, l’ampliamento del numero di accessi alle scuole di specializzazione, spiega Ripa di Meana, in quanto gli effetti sarebbero visibili solo tra 9-10 anni. Diverse le proposte della Fiaso per affrontare nel breve termine l’emergenza: tra queste lo sviluppo dei reparti basati sull’intensità di cura e complessità assistenziale per la gestione di cronici e post-acuti; l’investimento in nuove figure professionali che arricchiscano il middle management come l’ingegnere gestionale o biomedico; il pieno coinvolgimento dei medici di medicina generale nel sistema di continuità assistenziale; contratti ad hoc per i medici che prolunghino l’attività fino a 70 anni, prevedendo il superamento del limite contributivo di 40 anni; la definizione di una lista di attività che potrebbero essere svolte dal medico in formazione specialistica.
La prospettiva che più sconcerta e getta nello sconforto è che a fronte di migliaia di studenti che non riescono ad accedere al corso di laurea in Medicina prima, e alle scuole di Specializzazione poi, si arriverà ad un punto in cui i nostri laureati andranno all’estero per specializzarsi, e noi saremo costretti a importare medici dall’estero per sopperire alla mancanza di personale nelle nostre strutture ospedaliere e nel Sistema sanitario nazionale.
Un esempio lampante è dato dagli Stati Uniti, dove il numero di specializzandi è inferiore rispetto ai posti disponibili. Già un quarto dei camici bianchi che operano negli States infatti sono stranieri; circa un quarto degli specializzandi in ogni campo e un terzo dei residents che partecipano a programmi sub specialistici sono medici laureati in altri Paesi; più del 15% dei professori di medicina non è nato e non ha studiato negli States ma in Asia, Europa, Medio Oriente o Sud America; il 18% delle sperimentazioni cliniche è guidato da medici stranieri e il 18% degli autori di pubblicazioni in ambito medico non sono statunitensi.
Avvicinandoci molto più al nostro Paese, situazione simile si trova in Svizzera. Il mercato del lavoro elvetico sta attraendo una buona quota di laureati in medicina dalle università italiane, questo grazie a stipendi d’oro, scatti salariali e «la voglia di fare i chirurghi in un grande contesto». Il tutto, a meno di un paio d’ore di treno dalla Stazione Centrale di Milano.