Di tutte le serie Marvel-Netflix che sono uscite negli ultimi anni, Luke Cage è forse quella che ha diviso di più il pubblico. Da un lato, una colonna sonora incredibile, tra blues, jazz e hip hop, che richiama tutte le sottoculture afroamericane e black della Harlem odierna e passata, dall’altro una narrazione lenta e a volte ripetitiva che si discosta molto dai ritmi frenetici a cui siamo abituati in questo tipo di show.
Nella seconda stagione, sulla piattaforma Netflix da pochi giorni, ritroviamo il nostro eroe (interpretato sempre da Mike Colter) scagionato da ogni accusa, di nuovo a piede libero, diventato l’eroe di Harlem, osannato da tutti nel quartiere e seguito dai suoi fan attraverso l’app L’eroe di Harlem. Nel frattempo i vecchi nemici, Mariah (Alfre Woodard) e Shades (Theo Rossi), continuano a tramare per accrescere ricchezza e potere come da tradizione di ogni buon antagonista. A mettere i bastoni fra le ruote a tutti, c’è l’arrivo di Bushmaster (Mustafa Shakir), nuovo avversario per Luke e in cerca di vendetta verso Mariah per rancori tra le loro famiglie.
Ad affiancare il colosso nero ritroviamo anche le sue fedeli spalle, personaggi ricorrenti anche nelle altre serie Marvel-Netflix, tra cui Misty Knight (Simone Missick), Colleen Wing (Jessica Henwick), Danny “Iron Fist” Rand (Finn Jones) e Claire Temple (Rosario Dawson).
Come nella prima stagione, anche nella seconda a farla da padrone è la musica, insieme ad un’attenzione maniacale alle ambientazioni, curate fin nei minimi dettagli. Così, ogni volta che si entra nella Bottega di Pop, ereditata da Luke, si percepiscono tutti i valori positivi e la filosofia pacifista del barbiere deceduto nella prima stagione, figura paterna e mentore dell’eroe. Mentre ogni volta che ci ritroviamo all’interno dell’Harlem’s Paradise, locale di Mariah e prima ancora di Cottonmouth, è palpabile il clima di opportunismo e negatività di tutti i suoi frequentatori principali. Tutti i registi che si alternano nel corso delle 13 puntate riescono ad uniformarsi incredibilmente bene, dando alla serie una coerenza di stile e di inquadrature molto ben riuscita.
Restano, in compenso, tutti i problemi della prima stagione: Mike Colter, seppur migliorato, non riesce a catturare l’attenzione quanto dovrebbe, e il carisma che nella serie gli viene più volte attribuito non viene percepito dallo spettatore. Rosario Dawson, che col ruolo di fidanzata potrebbe smussare alcune incertezze, viene relegata ad un ruolo molto marginale. E se nella prima stagione a salvare gran parte della situazione era Cottonmouth (Mahershala Ali), villain tutto di un pezzo, carismatico, violento, determinato, questa volta nessuno dei tre avversari di Luke è all’altezza, tanto meno Bushmaster, che nonostante l’impeccabile performance di Shakir, risulta ripetitivo e scontato.
Interessanti invece alcune tematiche che sono state affrontate: dal conflitto di Luke con il padre, al rapporto tra Mariah e la figlia, passando per il controllo della rabbia, con cui il protagonista dovrà fare i conti più volte, traballando in bilico sulla sottile linea che divide il giustiziere dal criminale. Purtroppo però gli schemi che caratterizzano ogni personaggio non consentono grandi colpi di scena e limitano l’approfondimento di dilemmi morali a cui sono sottoposti.
Nonostante sia innegabile una crescita rispetto al passato, la seconda stagione di Luke Cage risente della stessa lentezza e pesantezza della prima. Uno show senza dubbi da vedere, indiscutibilmente ben girato e fan friendly, ma a tratti è necessaria una pazienza e una determinazione molto elevate per giungere fino alla fine.