All’inizio degli anni Duemila la figura del Social Media Manager, specialista nella gestione delle pagine dei più diffusi Social Network, non esisteva. Chi ha deciso dieci o più anni fa di investire e di formarsi nel linguiaggio dei social media oggi può dirsi un professionista. Partendo da questo presupposto ci terrei a sottolineare un dato espresso dal World Economic Forum: circa il 65% dei bambini che attualmente vanno a scuola, svolgeranno dei lavori che oggi ancora non esistono.
La tecnologia sta provocando un mutamento storico del lavoro, e allo stesso tempo, sotto diversi punti di vista lo sta portando via; per questo si sente sempre di più parlare di Quarta Rivoluzione Industriale.
Entro il 2020 si prevede la perdita di 7.1 milioni di posti di lavoro, la maggior parte nei ruoli amministrativi. Congiuntamente assisteremo anche ad un aumento di circa 2 milioni di posti di lavoro in settori come quelli tecnologico, matematico e ingegneristico. Il gap però resta comunque di 5 milioni.
Come dimostra il grafico, si stima che entro il 2033 i settori in cui il lavoro umano rischia maggiormente di essere sostituito dalle macchine siano quelli dell’agricoltura e della pesca, della manifattura e, in maniera particolare, del commercio (sostituito sempre maggiormente dallo shopping online). Al contrario, i settori in cui continuerà a rimanere improbabile una sostituzione uomo/macchina sono quelli dell’istruzione e della salute. Entrambi sicuramente caratterizzati da elevatissima innovazione tecnologica ma in cui la presenza umana non potrà mai essere sostituita.
Indipendentemente da quella che sarà l’evoluzione del mondo del lavoro e dei lavori che nasceranno, l’idea generale è che più alto sarà il livello di istruzione e di specializzazione in un determinato settore, e più alta sarà la possibilità di avere lavoro.
La domanda che nasce spontanea è: «Cosa stiamo facendo oggi per prepararci al futuro?»
Poco. In Italia il 30% dei cittadini non ha competenze digitali. Nelle scuole c’è un solo PC ogni 8 alunni. Investiamo in Ricerca e Sviluppo circa l’1,3% del Pil rispetto alla media europea che è del 3%. Infine, fra la popolazione dai 25 ai 64 anni, solo l’8,3% è coinvolto in programmi di formazione, contro il 10,8% della media europea.
È vero che quando parliamo di lavori del futuro non sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Possiamo sì provare ad immaginare, ma la realtà finirà sempre per superare la nostra limitata fantasia. L’unica soluzione è prepararci ad adeguarci, ad essere flessibili e pronti a cogliere le occasioni che al momento non possiamo nemmeno lontanamente intravedere.
La scuola deve giocare un ruolo cruciale, offrendo strumenti più ampi possibili, puntando sulla multidisciplinarietà, stimolando la creatività dei ragazzi abituandoli all’elevata portata di dati con cui dovranno necessariamente confrontarsi. L’approccio seguito finora non regge più, non solo per l’impellente bisogno di introdurre nelle classi la tecnologia e il digitale. È necessario formare il problem solving, puntare sul lavoro di gruppo, sulla capacità di pensare fuori dagli schemi. Stesso discorso per la capacità di gestire i nuovi media e l’informazione, sempre più abbondante e quindi sempre più difficile da selezionare e usare, nel mare dei big data a nostra disposizione. Decisiva anche la predisposizione a lavorare in ambienti virtuali, perché il luogo fisico dove si svolge il lavoro somiglierà sempre meno a quello a cui ci siamo abituati nell’ultimo secolo.
Molti mestieri che facciamo oggi resteranno, dall’ingegnere all’avvocato, dal medico al programmatore, ma il modo di farli cambierà al punto di escludere alcuni lavoratori ed esaltarne altri. Perché non iniziare già a pensarci?