E’ da poco uscito nelle sale cinematografiche italiane “Sulla mia pelle”, il docufilm sugli ultimi giorni di vita del 31enne Stefano Cucchi accusato di spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti, passati tra il carcere di Regina Coeli e il reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini di Roma. Il film, una produzione originale Netflix, è disponibile anche sulla piattaforma di streaming online; un contenuto relativamente accessibile, quindi, che personalmente consiglio di vedere.
Alla sua presentazione nella sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia sono seguiti 7 minuti di applausi, data l’intensità della sua narrazione e del dolore che l’attore protagonista è riuscito a trasmettere.
Non una pellicola facile, di sicuro, ma il prodotto di un regista, Alessio Cremonini, che ha deciso di raccontare una storia nel modo più fedele possibile. La sceneggiatura di “Sulla mia pelle”, infatti, è frutto di un lungo lavoro da parte del regista e dei suoi collaboratori, per i quali è stato necessario leggere almeno 10.000 pagine di verbale e intervistare i diretti interessati della vicenda, come la sorella Ilaria Cucchi, i genitori Rita e Giovanni, i rappresentanti delle forze dell’ordine e del personale medico che sono stati testimoni della vicenda.
Oltre all’onestà intellettuale dimostrata dal regista e dall’intero cast, la cosa che spicca durante la proiezione del film è l’incredibile lavoro degli attori, primo fra tutti ovviamente Alessandro Borghi: un protagonista di cui si avverte l’impegno annullante, lo sgretolamento quasi totale della sua personalità in favore di qualcosa di più importante. La sensazione è quella di assistere ad un attore che non sta recitando una parte, ma che in quel momento è totalmente immerso in qualcun’altro, che sta cambiando se stesso per rendere giustizia a chi finora non ne ha avuta.
Altra interpretazione sopra le righe è quella di Jasmine Trinca, impeccabile nel rappresentare il coraggio di Ilaria Cucchi, che dal giorno della scomparsa del fratello non ha mai smesso di credere nella giustizia, senza mai abbandonare la lotta per la ricerca della verità.
Il rispetto della vicenda è, come anticipato, uno dei punti focali del film. Il modo in cui sono girate alcune scene, la posizione della telecamera rispetto ai protagonisti e la lucida rappresentazione della natura umana sono una lezione di sensibilità nei confronti di tutta la storia. Il dramma dei familiari viene rappresentato con garbo, lasciando ai diretti interessati la giusta privacy senza essere invadente.
La scena finale in particolare è la più emblematica rispetto a questo tema: nel momento in cui i genitori vedono la salma del figlio, la telecamera rimane fuori dalla stanza con la sorella Ilaria. Tuttavia, le voci spezzate di Giovanni e Rita rimbombano nella minuscola sala, e questo è il momento in cui il film raggiunge il suo apice drammatico. Se per tutto il film è orribile assistere alla fine della vita di Stefano, la parte in cui i familiari finalmente riescono a vederlo è qualcosa di straziante.
Interessante è stato anche l’occhio di riguardo rispetto ad uno dei turning point della vicenda, ovvero il pestaggio. C’è solo una porta dentro cui Stefano Cucchi viene spintonato e niente più, qualche secondo di inquadratura della porta chiusa e poi nuova scena: stacco sul suo volto livido, chiuso nell’auto dei carabinieri.
Oltre alla sensibilità dimostrata nei confronti della storia, secondo me è apprezzabile il fatto che non si tende a santificare la figura di Cucchi, anzi, si cerca di rappresentarlo con tutti i suoi difetti: quindi Stefano che per paura non denuncia, che rifiuta le visite mediche, che non cerca di rendersi simpatico al personale medico e non cerca la pietà di nessuno. Non sono risparmiati debolezze e difetti, quindi, non c’è un martire. C’è solo un racconto, lento e estenuante, che inscena un’assurda e dolorosa agonia.
Ciò a cui si assiste è la morte non solo di un ragazzo, ma di un sistema che scivola silenziosamente sulla comoda via dell’omertà. Tutti i protagonisti della vicenda hanno assistito in silenzio al calvario di un giovane come tanti, invischiato nella tossicodipendenza. Omertà, indifferenza e ignoranza delle forze dell’ordine che scaricano responsabilità, che vengono caldamente consigliati di rimanere in silenzio, del personale medico, che davanti ai lividi sul suo volto e sulla schiena raramente insiste per capire cosa è successo.
Ma soprattutto, centrale nel film è l’omertà di Cucchi stesso, che per paura di peggiorare la sua situazione risponde che i lividi che ha se li è procurati “cadendo dalle scale”. Quando finalmente rivela che “so’ state le guardie” a pestarlo, nessuno gli crede, e quindi, in un batter d’occhio lo slancio di coraggio si sgonfia e tornano ad essere colpevoli le scale.
La figura di Stefano fa davvero male, perchè nonostante lui per primo voglia nascondere l’accaduto, ad un certo punto della detenzione, quando ormai non riesce più ad alzarsi dal letto neanche per prendere le sigarette, scoppia in un pianto disperato. La cosa che fa più arrabbiare di questa scena penso sia l’urlo di dolore e dispiacere del suo amor proprio, che viene fuori quando ormai è troppo tardi.
Cremonini indaga anche sulla titubanza della famiglia a credere che i responsabili dei lividi del figlio siano proprio i carabinieri. Il primo pensiero è infatti che sia stato un detenuto a pestare Stefano. In un secondo momento invece il dialogo tra i genitori diventa uno dei punti focali del film: se Stefano la prima notte l’ha passata in commissariato in compagnia dei carabinieri, a ridurlo così devono essere stati loro.
Nel passaggio successivo, in cui vince la necessità di essere estremamente pratici, anche la burocrazia riceve una grandissima critica. A Rita e Giovanni non viene concesso di vedere il figlio a causa di una mancata autorizzazione, e in quel momento ci si chiede davvero come sia possibile che un genitore debba rispettare dei brevissimi orari di ufficio per poter visitare i figlio, e a causa di errate spiegazioni, un altro giorno e poi un altro ancora. Un labirinto di autorizzazioni non concesse, insomma, iter chilometrici e mancata disponibilità da parte del personale di turno.
“Sulla mia pelle” è un film che non fa dormire la notte. Il senso di impotenza e rabbia che si prova durante tutta la proiezione costringe lo spettatore a non voltare le spalle a una problematica che solo nel 2009, anno in cui è morto Stefano, ha visto più di 150 morti.
Ma ancora di più, ciò che lascia basiti è il fatto che a distanza di 9 anni i colpevoli di queste morti non abbiano ancora pagato.
– “Spero davvero che non ce l’abbia con noi.”
– “Per cosa?”
– “Perchè lui… Che ne sa di tutti i casini per vederlo? Vede che non ci va nessuno… Penserà che siamo arrabbiati con lui. Io dopo una settimana lo penserei.”