Recensione del testo più sovversivo e filosofico del nostro presente. Un sommovimento della realtà e della lettura, intorno al buco nero di tutte le teorie
C’è sempre una prima volta: è tutto una prima volta. Una volta, e fu la prima, mi capitò confusamente di incrociare le elaborazioni di uno strano gruppo, non sapevo se una realtà insurrezionalista o meno, che si chiamava Tiqqun e che operava presuntamente in Francia. Ufficialmente operò a partire dalle rivolte delle banlieu nel 2005. Meno ufficialmente, soltanto chi è invisibile è a conoscenza del segreto. Ben quattordici anni hanno impiegato quelle elaborazioni per finire in un libro in lingua italiana, che si direbbe definitivo, se non fosse che l’avversario specifico di quelle elaborazioni è proprio l’illusione che si dia qualcosa di definitivo. Tiqqun si è nel frattempo trasformato, da organo del partito immaginario, in una formazione che interpreta l’emergenza continua, secondo funzioni che risultano intollerabili all’ordine costituito, agli schemi e alle dinamiche di un’alienazione profonda, e si direbbe quintessenziale, a cui il fenomeno umano va incontro nella sua fase occidentale, che ormai è di prammatica a ogni latitudine e costituisce il velo di Maya da strappare, per fuoriuscire dall’idea che la fine sia stata consumata e il definitivo sia l’abito precipuo di un pianeta limbico e mortuario. Comitato Invisibile è edito dalla meritoria casa editrice NOT, probabilmente la realtà più vivace e significativa nello stantio comparto editoriale italiano: non c’è un titolo, pubblicato da questa centrale di emissione di saperi e pensiero, che non appaia di altissimo interesse. Il libro riunisce tre testi che non solo in Europa, ma addirittura per i continenti tutti, sono stati celebrati e temuti come fondamentali. Che cosa sono queste scritture, se lette attentamente su pagina, prima di erompere nella pagina del mondo, ma anche successivamente, quando seguono l’emersione nell’ordine di realtà? Di cosa tratta questo trattato del ribelle globale e contemporaneo, cioè antichissimo e umanistico? Siamo davanti alla sregolatezza giovanile, che l’attuale giovane generazione denega per abitudine all’emivita della propria autofarmacologia? E’ una poetica dell’insurrezionalismo? Il preannuncio e la pratica della rivolta o addirittura della rivoluzione? E’ la critica della irragion pratica? Sono i sentieri interrotti e liberati da tronchi silvestri che minacciano il passaggio? Platonismo impuro? Agambenismo oltranzista? Debordismo al cubo? Una geometria minaccia l’umano, da sempre: nell’Accademia platonica è interdetto l’ingresso a chi non sia geometra e tutto il Timeo è un saggio di geometria spaziale e iperspaziale, non euclideo, sacrale forse, metafisico spurio certamente – eppure direzionante, ovvero capace di raccogliere i germogli in un sistema di sviluppo, le cui tappe appaiono fatali, ovvero naturali. Diciamo dunque che l’ultimo dei testi, a cui i presunti autori del Comitato Invisibile devono avere pensato mentre componevano questa danza rotante da sufi occidentali, è proprio il Timeo platonico, dal quale si espunge la maieutica per farne una pedagogia e rispetto a cui il momento poetico è la filosofia – il che spiega l’incredibile ingaggio stilistico, la forma perturbante della linea scritta, l’afflato estetico come persuasione tutt’altro che occulta. Non c’è istante insurrezionalista che non rientri nei compossibili, via via teorizzati e messi in concorrenza col reale, espressi dall’invisibilità di questo comitato di presunti, al limite della presunzione, anche di innocenza.
E’ sufficiente uno sguardo in rete per rendersi conto della portata politica di queste scritture che parodiano il sacro e compiono la missione del pensiero occidentale in epoca contemporanea. Storia, azioni e cultura del Comité Invisible si trovano facilmente. Non è il caso di occuparsene, perché gli scritti di questo formidabile manuale sul saper vivere a uso di ogni generazione richiedono una lettura letterale, un assolutismo testuale, una filologia in scala 0:0. E nessuna sede sarebbe adatta a questo esercizio di glossa, a questa ermeneutica che distrugge il processo libidico, il dato pulsionale che questa scrittura innesca e partorisce, gonfia e invia come messaggio all’imperatore. Si parla del gesto dell’insurrezione: si parla soprattutto del gesto. La bellezza piena, solare, del gesto è uno dei buchi neri che si spalancano nell’orizzonte degli eventi in cui si inscrive lo sguardo degli invisibili radunati in comitato. L’estetica che accade istantaneamente con l’azione e la teoria stessa del gesto è un problema filosofico, che l’accademia occidentale non ha mai risolto, se non con approcci insinceri o professionalmente dilettantistici, facendosi schermo dietro appellativi e sommovimenti che producono nel Novecento i nomi sacri di Michel Foucault, Gilles Deleuze, Guy Debord e, postumamente, Giorgio Agamben.
La geofilosofia che si dà nella pratica di scrittura del Comitato Invisibile matura una tradizione filosofica estremamente leggibile, ma destinata ad andare a gambe all’aria rispetto ai fondamenti delle filosofie esotiche, per esempio quelle orientali. Sarebbe come se Matte Blanco si trovasse di fronte a un Ain Soph: elaborerebbe, appunto, e l’elaborazione non è affatto la giunzione e l’identità tra azione e segno. Il punto critico è anzitutto l’“io” e non a caso i presunti autori invisibili cominciano proprio da questa radice, inestirpabile per l’occidente, estirpabilissima per l’oriente, irrilevante per gli inouk, destrutturata a priori per i boscimàni – e così all’infinito o, piuttosto, allo sfinito. I AM WHAT I AM è uno slogan aggredito sin da principio di questi furibondi commentarii alla società dello spettabile. E viene risolto così: l’“io” è un accumulo di storia. Ciò orienta e disorienta del tutto l’analisi successiva, perlomeno dal punto di vista strettamente filosofico: ma il filosofico qui è politico. Accade dunque per Julien Coupat (personalità geniale, uno dei presunti autori del presunto comitato presunto invisibile) che l’“io” a un certo punto emerga e dica: “io”. Questo fondamento è sfondato, da subito, tutto viene risucchiato da questo errore. Peraltro la poetica dell’errore non sembra avere presa in questa fitta e grandiosa elaborazione: l’errore si dà soltanto come margine del poetico. Smarginare poeticamente salva, da sempre, coloro che ritengono la vita un’opera d’arte, ma appunto questo è il fascismo, il pericolo interno di fascismo, contro cui ci si dota di piacere. Il piacere è una potenza, non un’attualità. E’ un’attesa, non un soddisfacimento. Il Comitato Invisibile, che tutto è fuorché ingenuo filosoficamente, conosce i meriti del processo rispetto agli esiti del medesimo e formula una teoria e pratica libidica che, più che Benjamin, ricorda da vicino la conversazione infinita di Blanchot. Ma qui siamo al tecnicismo e il volgo reclama una spiegazione dei Gilet Gialli.
E la avrà, leggendo anche non attentamente questa prosa affascinante, questo grande stile, questo rimbalzo con cui la sociologia diventa tragedia sia eschilea sia euripidea, questo illuminismo illuminato davvero e, dunque, nemico a tutti gli illuminismi, che risultano per ciò che sono: assunzioni delle banalità di base, regimi di contenzione, pensiero carbonfossile. Non disponendo e non cercando una teoria dell’“io”, si passa a una pratica del “noi”. Sembrerebbe comprensibile, se non fosse temerario. Eppure il vuoto permane, impronta di sé ogni mossa del pensiero e dice una verità mai allusiva: il Comitato Invisibile è troppo poco metafisico per essere se stesso.
Muovere una critica radicale alla critica radicale è un esercizio di saccenza mia personale e deriva da una pratica di vita, una convivenza pluridecennale con questo punto cieco, che le filosofie più o meno analitiche, tanto quanto quelle mistiche o disarticolanti, non hanno smesso di equivocare da quando dispongo di una coscienza, alienata come tutte le coscienze, false o cattive o meritorie che esse siano. La questione è sempre iniziale: è l’inizio a essere sempre in questione. E’ a un simile incrocio che si apprezza il crollo, nel momento in cui si sta edificando, e non per una previa teoria delle rovine (uno speerismo filosofico), ma per la mancanza di radicalità costitutiva dell’enorme apparato filosofico occidentale. Prendiamo il fatto che Julien Coupat è uno dei presunti autori del Comitato Invisibile: perché sarebbe “presunto”? Perché qui, nel Comitato Invisibile, viene disabilitato il dispositivo dell’autorialità, che era per l’appunto una delle interpretazioni storiche dell’“io”, il cui retroverso era la questione della legge: il risvolto di una giurisprudenza universale e universalmente rappresentata dall’istituzione, con tutte le conseguenze che finiscono per andare in voga in quella giurisprudenza seconda che è sempre stata la filosofia chez nous – si prenda per esempio la teologia politica schmittiana, che finisce per fiorire in quell’operazione di mentalismo che è il corpus di Giorgio Agamben. Ora, se l’autorialità è una presunzione, il senso della mossa filosofica mette in evidenza che il nemico è sempre l’“io”, poiché si pensa che il peccato metafisico sia ravvedere un’enorme soggettualità dove regna invece la meraviglia del divenire, i molti contro l’uno. Non si smetterà un secondo di esercitare un fascino, scrivendo contro l’“io” e dunque contro il dispositivo stesso del fascino.
Non è plausibile affrontare qui la complessità dell’elaborazione teorica e politica, che Comitato Invisibile conduce a trovare la luce nel mondo, come una sincera e struggente consolazione spesa nei confronti di Orfeo, che è davvero minato dalla storia e ci fa piangere, mentre a essere morta, e due volte, è Euridice. Si può tranquillamente considerare questa summa in divenire come il discorso filosofico più alto e sussuntivo della nostra contemporaneità. E anche: l’esercizio poetico più convolgente e disarticolante in un tempo impoetico come il nostro. Tutti i nodi visibili vengono al pettine invisibile e non si possono comprendere la profondità e il gigantismo di quest’opera, se non si conoscono Platone e Aristotele, ma anche i presocratici tutti, giù giù fino ai lacanisti e, diciamo, Badiou. E’ una teologia della scrittura, che si intesta l’enorme responsabilità di dire nel mondo che la scrittura è politica e viceversa. Onore e gratitudine (non eterni, perché l’eternità sembrerebbe non esistere) agli Invisibili in Comitato.
PS. Una postilla, sempre filosofica e stavolta meno tecnicistica, va tuttavia aggiunta. L’intero movimento teorico e poetico di questa stupefacente manifestazione del filosofico, oltre al buco iniziale relativo all’“io”, presenta nella sua tonalità un nostalgismo che, ancora, mette a nudo l’imbarazzo nei confronti della storia. C’è una sorta di edenismo dell’arcaico, di fiducia nei confronti del passato che resta ininvestigata. Ciò non è affatto un caso, proprio per quel vizio iniziale: l’“io” non c’entra minimamente con la storia e con la natura, sebbene sia il centro da cui irradiano i cerchi della storia e della natura stesse. L’amore non è un’involuzione e tantomeno un’evoluzione, non è nemmeno un apparato e meno che mai un dispositivo. Alla filosofia l’amore sfugge soltanto quando essa è il vero vincitore dell’epoca e ne rappresenta la facies mortuaria, descrivendola, avendola anticipata o profetizzata. E’ arduo considerare che il Filebo platonico e il suo compimento in Marsilio Ficino siano agenti di quel mainstream. Però esistono: e bisognerà farci conti, invisibilmente.