Un memoir d’autore su una partita di calcio che è stata uno scontro tra visioni del mondo, la poesia contro la prosa. Ha vinto la poesia.
C’è tutta la gioia sfrenata dello sperpero, della perfezione imperfetta, una balcanizzazione del campo, la chiusura di un balcanico invecchiato di passo in passo con la sua sapienza tattica che non serve più a nulla, a nulla: al minuto 63mo di Juventus-Ajax, quando le due squadre sono del tutto incongruamente sul pareggio, che è appunto incongruo perché i lancieri di Amsterdam hanno già prostrato una Vecchissima Signora, in piena artrosi, David Neres Campos, 22 anni e una fisiognomica da paziente sotto quietiapina, col riflesso palpebrale rallentato, si pone al di là della velocità stessa, qualcosa che Carmelo Bene nel suo immortale Discorso su due piedi (il calcio) definisce “eccedenza”, cioè la capacità del campione supremo di trascendere i limiti stessi dello sport che pratica e dello spazio e del tempo e addirittura della qualità (CB: “Addirittura eccedere la qualità. La qualità, cioè la forma, è noiosissima”) – David Neres dunque lancia supernamente all’indirizzo di Dusan Tadic, serbo virtuoso ed estroflesso di Bačka Topola, venuto al mondo un anno prima che dal mondo se ne andasse il Muro berlinese, finché, inaspettatamente e fin troppo aspettatamente per il pubblico torinese, taglia – come si dice – al millimetro per Hakim Ziyech, marocchino di Dronten nei Paesi Bassi, sospeso nell’attesa che il pallone giunga e lui riesca magnificamente a concludere. E’ gol. No, non è gol. Macilento e istantaneo, spuntato non dal nulla ma da qualcosa, Miralem Pjanic, venuto al mondo un anno dopo che il mondo si era liberato del Muro, bosniaco virtuoso e introflesso, con la smorfia di chi per troppa esperienza sa che il fondo amaro dell’esperienza stessa è il lutto anticipato e sa anche come l’interpretazione consunta della vita disegni la maschera di sofferta sopportazione che è costretto a indossare chi è dotato di baricentro troppo basso – ecco, Miralem Pjanic torna, spezza la trama olandese, scivola, salva la porta e conferma la reputazione di intelligenza a discapito della forma fisica e delle frequenti narcosi a cui lo costringe il centrocampo. I ragazzi che il critico del Corriere della Sera, il superbo Sandro Modeo, chiama aiacidi, con omerismo del tutto consono alla storia, questi strepitosi giovani anziani venuti da Amsterdam sembrano all’improvviso tirare un sospiro di sollievo e non di disperazione per la rete mancata: era tutto troppo bello perché il momento si incaricasse di essere anche perfetto e di sciuparsi nella memorabilità. Questi poeti del pallone, geni ormonali e algoritmici, potranno tentare l’azione successiva e poi ancora quella successiva e poi quella successiva ancora, potranno vivere la spuma del tempo: sprecando. Soltanto in questo modo si conquista l’ebbrezza che dà bere la vita mentre si è vivi. E infatti vinceranno. Vinceranno su tutti i possibili campi. Conoscono e non smetteranno di conoscere il segreto del momento, che è quello di durare un attimo prima di finire e di crollare in quella morte in vita che è il ricordo.
Non si ricordava da tempo una simile disfatta dell’esistente, la cui proterva e lugubre statura era bene emblematizzata dalla Juventus di Massimiliano Allegri. Generalmente l’indagine lombrosiana tradisce qualche luccicanza, tanto da divenire credibile per i più. Dunque si osservava questo uomo bianco di mezz’età, che proviene da Livorno e ci tornerà, un sembiante ittico eternemente corrugato, un’isteria trattenuta e spacciata per la calma che conferisce la saggezza, una mimica eternamente strizzata – finalmente fermo, reso gargoyle, come se di fronte avesse Notre-Dame in fiamme. I suoi capolavori sono stati perlopiù rimonte, il che dice qualcosa dell’assetto speculativo che conferisce alle sue creature. E’ l’uomo dell’azienda, che gestisce e valorizza, lo speculativo che si consente sempre un pizzico di fantasia e di imprevedibilità (inventa Emre Can in una difesa a tre contro l’Atletico Madrid: quella sarebbe l’invenzione), il che significa un unico azzardo: quello del margine che svisa, del particolare che non torna e quindi funziona. Ecco, il calcio del mister Allegri è questo: è funzionale. Per esistere, ha bisogno di un dispositivo antagonista, da cui ricava linfa. E’ una logica saprofita. Dice molto del carattere italiano, nel calcio come nella storia bimillenaria, o, meglio, successiva alla conquista dell’Arabia Nabatea, quando l’impero romano cominciò ad arretrare senza sosta, forgiando l’animo al conformismo più radicale del pianeta.
Dall’altra parte, nell’organizzazione elettrica, ad altissimo voltaggio, nella composizione di dinamo variabili che è il calcio totalizzante dell’Ajax 2018-9, non si prescindeva dalla poesia: ogni composizione algebrica diventava un’equazione differenziale e tendeva all’infinito: ovvero alla poesia stessa. La prosa sconfitta dalla poesia è una verità del mondo a cui l’Italia si oppone da sempre, schierandosi contro i suoi propri geni, che sono quasi sempre poeti, anche quando scienziati o santi. Il talento è una forma di sfruttamento, intima e verificabile, quantitativa e quindi pagellizzabile: ecco, l’Ajax visto con la Juventus è fuori da ogni valutazione: è il gioco stesso, che non viene giocato, perché sta giocando il gioco medesimo. Il dominio del gioco non è scontato in tempi di riduzione di tutte le cose a cifra, a numero calcolabile. La logica cantoriana con cui si conta negli infiniti porta al suicidio il suo creatore e l’Ajax a imporre se stesso in un dominio maggiore e non massimalista: massimo, piuttosto.
Che il calcio sia una metafora sociale è vero almeno quanto al contrario: la società sta funzionando esattamente come questo calcio. All’apertura delle borse, il giorno dopo la strepitosa vittoria e il passaggio di turno Champions con cui l’Ajax dei giovanissimi ha surclassato l’impietrita ed emiparalitica Juventus, il titolo degli olandesi è salito del 20%, quello dei bianconeri ha perso il 25%. C’è una ragione sentimentale da proporre, da fare valere, rispetto a ciò che letteralmente avviene nel campo di gioco? Sì, c’è ed è la verità dell’impressionante folata di fiamme con cui un calcio, più totalizzante che totale, è stato giocato, nel senso più puro e alto che si può conferire a questo verbo, tanto abusato e allargato nelle sue accezioni, da non significare più nulla. Il gioco a PES e a Fortnite non è tale, perché non può produrre eccedenza: si sta nell’insieme di regole e nelle non infinite possibilità che il creatore del gioco stesso attribuisce alla matrice generativa del programma. Invece, come dimostra l’assolutezza olandese vista a Torino, la verità del campo non smette di essere rivoluzionaria, perché è in quel rettangolo che il gioco stesso offre il massimo attrito a qualunque funzione cerchi di sostituirsi alla sua poetica sorgiva, anarchica: splendida. Possono concedersi, i realisti, ovvero i campioni della desertificazione e dell’arido vero – possono permettersi qualunque ordine di spettralità, nel comporre il giudizio contro il gioco: ci sono le variabili economiche e finanziarie, c’è il fantasma della concretezza, c’è lo scetticismo comminato ironicamente alla gioventù e all’andamento scriteriato. Il realismo, si sa, manca di poesia.
L’ala sinistra del possibile ha condotto ad anni luce dal battito di fringuello dell’ala destra del realismo. Che non è stato nemmeno realismo socialista, se per tale vogliamo assumere l’impressionante macchina che il colonnello Valerij Vasyl’ovyč Lobanovs’kyj, genio ucraino e sovietico, forgiò con l’URSS sconfitta nel 1988 proprio dagli olandesi. Il cui genio è e resta Erasmo, il teorizzatore della follia e della sua stessa normalizzazione. I popoli esprimono un genio, bisognerà rassegnarsi a questa verità del mondo, che coagula lingue e idee intorno a un temperamento e, conseguentemente, a moduli calcistici.
E Miralem Pjanic si rialzava con una lentezza sfinita e sconfitta, dopo avere evitato il gol, entrando in una piccola memorabilità, deluso dal mondo e dal suo andamento implacabile, dalla stortura impressa alla natura dalla storia degli umani, il cui peso gli gravava sulle spalle e sul baricentro basso – perché il genio non ha proletariato, bensì ne è espresso, e l’Italia è un costume nazionale che spartisce con il proletariato medesimo le sue cifre genetiche, le sue infinite sopportazioni, la fatica non tanto di vincere, ma di eccedere tutto, anche se stessa, per impietrirsi e poi, all’improvviso, degenerare giocando.