E’ un capolavoro la miniserie HBO sul disastro nucleare avvenuto nell’86. Ed è un capolavoro della storia quella tragedia sovietica e mondiale: l’evento con cui cominciò il nostro tempo.
Il 26 aprile 1986 io ho sedici anni, altri trentaquattro, altri sessantadue e tutti i viventi italiani hanno degli anni e incominciano lentamente a morire.
Siamo distanti dal luogo del disastro, ma viene comunicato a tutti noi viventi che non c’è più un luogo del disastro – il disastro è ovunque, il suo impero è nell’aria e ora accediamo a una nuova natura, che non è più naturale, ma modificata, cancerogena, fatta di DNA mutati, di tiroidi gonfie e leucemie atmosferiche, saremo tutti pelati in un ospedale con le flebo al braccio, con un cancro visibile che viene dall’invisibile e va curato con elementi radioattivi nella sanità pubblica del 1986.
È esplosa la centrale nucleare di Chernobyl, un luogo che non abbiamo mai considerato esistente e tantomeno nostro, ma diventa nostro nelle reticenze lente del regime sovietico innovativo di Michail Gorbaciov. Questo pelato, con una voglia sulla nuca a forma di continente viola, è in grado di essere radioattivo grazie ai moltissimi missili termonucleari che può scatenare con il pulsante rosso di una celebre valigetta, con i codici segreti nucleari, nell’odio stabile contro il regime degli Stati Uniti, essendo Gorbaciov a capo delle Russie estreme, che presto torneranno tali, ma al momento sono Unione Sovietica, eredi dei sopraccigli marmorei di Leonid Breznev, predecessore di Gorbaciov, vestito con la divisa dell’Armata Rossa e responsabile di tutte le centrali atomiche nucleari comuniste unite, per produrre un’energia insana e pericolosissima, che fa ruotare le turbìne e sta lì a informarci che la morte radioattiva è possibile, è imminente, manca poco. Tutti i bambini alle elementari italiane scrivono da decenni i temi sull’esplosione atomica della bomba: c’è ovunque la bomba. Tre anni prima, 1983, in tutti i cinema del mondo occidentale è esplosa la bomba atomica, la abbiamo vista deflagrare, produrre il fungo atomico luminoso che si staglia nel crepuscolo americano, su un’autostrada americana senza speranza, una carovana infinita di abitanti in fuga da Kansas City e l’Unione Sovietica colpisce per prima: questo era il film The day after, che ci spaventa. Siamo pronti alla nuclearizzazione. Essa avviene.
Inizialmente non si capisce niente, così come è accaduto anche con l’HIV. C’è sempre confusione nelle tragedie, all’inizio, un mutismo degli organi di informazione, accenni e sporadiche smentite e rare repliche, qualcosa si muove, ma indistintamente, e l’Unione Sovietica si sa che è una coltre di silenzio siberiano, spazi siberiani di taighe orizzontali e steppe dove ballano il casatschok del ballo della steppa, di Popov, dello Zecchino d’Oro (una trasmissione di cori di bambini angosciante, diretti da una maestra magra e dedita a questa cosa che si chiama Mariele Ventre, con il Mago Zurlì amante dei bimbi, Cino Tortorella e un pupazzo melenso di un topolino non Disney, Topo Gigio: noi vediamo tutto questo).
Noi, di Chernobyl, non vediamo inizialmente nulla.
Poi: esiste un posto complicato ucraino, si chiama Chernobyl.
Poi: è esploso il reattore 4.
Poi: si è fuso il nucleo della centrale.
Poi: è uscito un vapore mortuario omicida e pieno di rischi per la salute degli ucraini.
Poi: lo ricoprono di sabbia, di boro, di cemento, cadono gli elicotteri che trasportano il cemento sopra il nucleo.
Poi: viene ricoperto con un sarcofago, così lo chiamano, il nucleo è un enorme faraone morto, mummificano il nucleo.
Poi: i vapori hanno formato una nube, i venti cospirano contro gli italiani e gli europei, la nube invade il continente.
Infine: il rischio sarà per sempre, questo elemento cesio radioattivo non si spegnerà mai, per migliaia di anni sarà sempre Chernobyl.
A quel punto si attiva l’allarme nazionale. Chiunque è a rischio, qualunque cosa è un rischio.
Si inaugura un commercio segreto e frontaliero tra l’Italia e la Svizzera, questa nazione astratta con i cantoni Grigioni, Nidvaldo e Svitto, strapiena di oro e banche, avanzata nel campo farmaceutico, che dispone di pastiglie di iodio, a protezione delle tiroidi, che sono minacciate dalla radioattività. Bisogna acquistare queste pastiglie, spesso con uno strano contrabbando in Lombardia. La nube radioattiva è giunta nel Trentino Alto Adige e quindi non bisogna più mangiare le “verdure a foglia larga”, ovverosia l’insalata, e non bisogna bere il latte vaccino e non saranno più possibili il miele, i funghi. A Milano, ai giardini di Porta Venezia, si depositano immani quantità eterne di cesio e i bambini che giocano nella polvere dei giardinetti assumono la radiazione per le loro leucemie incrementali.
I sovietici impanicano. I comunisti non mangiano i bambini: li contaminano. È presumibile che l’incredibile avvenga, con il crollo dell’Unione Sovietica, imprevisto dalla storia e oramai prevedibile. Comincia da Chernobyl, passa per Berlino e il suo muro, contamina la Cortina di Ferro, culmina a Mosca. Gorbaciov scioglie la riserva. Tutti noi saremo a breve orfani, dell’Unione Sovietica e dell’America di Ronald Reagan, non sappiamo più dove girarci. Il mondo è nuovo e altrettanto il suo ordine.
È accaduto questo: Chernobyl comunica al pianeta che la natura non è più naturale: è tecnologica. Le atmosfere sono chimiche. Gli elementi, volatili. Le conoscenze, provvisorie e sottoposte a un progresso molto accelerato. Qualcosa pulsa nell’aria ed è esogeno, perenne, lugubre in una nuova forma della morte: il cadavere recherà il principio di contagio sempre e deve essere sepolto in un sarcofago di cemento sempre.
Ciò che avviene a Chernobyl, in Ucraina, nell’URSS è inimmaginabile per noi, viventi da ora in poi radioattivi. Vengono sterminati i cani, i gatti, gli alci, il bestiame ucraini: sono radioattivi. Le città sono radioattive, sono state evacuate e sono deserte, le foreste sono radioattive e i soldati radioattivi con le protezioni vanno a diffondere liquidi sterilizzanti, per le strade deserte, sopra qualunque vegetale, nei boschi di legno ceduo. Le giostre di Pryp”jat’ e Chernobyl arrugginiscono, girano lugubremente per il vento radioattivo. Si creano vegetali mutageni, zucche impressionanti, latifogli sbagliati.
In un’epoca laica, in cui Dio è evidentemente morto o si è ritirato furibondo, chiunque è costretto a credere nell’invisibile. Esso si chiama: xenio, cesio, nomi allarmanti fatti così, la tavola periodica di Mendeleev è una nuova tavola della legge, è un nuovo Mosè, sono nuove piaghe di quell’Egitto gelido che è l’Unione Sovietica.
Il comunismo, che perde, in realtà sconfina e prende tutto – prende tutto il pianeta, contaminando l’aria. Chiunque è comunista, in quanto radioattivo.
Milioni di bambini pelati ucraini senza sopraccigli arrivano ovunque negli ospedali della Lombardia, con vestaglie linde e flebo chimicamente utili.
Il pianeta è leucemico.
Non cesserà mai più di esserlo. Ci scorderemo che Chernobyl è sempre ora, ovunque.
C’è un prima e un dopo Chernobyl nella storia del pianeta, così come Cristo: un Cristo capovolto e radioattivo, che è esattamente ciò che poi è di fatto Cristo: ci muoviamo in lui respiriamo in lui. Siamo lui. Siamo corpi intrisi di cesio.
Questo evento messianico, che non è semplicemente e soltanto storico, ha oggi una sede di rappresentazione artistica, che vale una visione stupefatta: è una tragedia, non classica, proprio perché Chernobyl introduce una variabile nuovissima, che fa finire qualunque classicità. Chernobyl non è all’inizio della storia dell’accelerazione tecnologica, ma certamente è l’apice della sua manifestazione. Qualunque rappresentazione artistica di un simile apice sarebbe insufficiente, se non fosse in grado di sciogliere il problema di cosa sia il tragico, e conseguentemente la tragedia, nell’epoca di noi che siamo ora viventi.
La miniserie televisiva Chernobyl, ideata da Craig Mazin (finora dimenticabilissimo sceneggiatore di “Scary movie 3” e “4”) e realizzata dal regista svedese Bo Johan Renck (è nato a Uppsala, vantava qualche episodio di “Breaking Bad” e di “Walking Dead”), è il capolavoro su questo devastante episodio della vicenda umana sul pianeta Terra.
L’invenzione della tonalità, del colore brumoso gelido, dei costumi inquietanti, del trucco per arrivare a uno dei momenti più spaventosi nella storia della neo-tv (il pompiere Vasily Ignatenko, che resta contaminato ed è una delle prime vittime dell’incidente: lo si vede sul letto di morte, maculato e alieno, trasudante sieri e trasformato in un mantice non più umano: è una visione sconvolgente), così come l’incredibile interpretazione di Jared Harris (già enorme in The Terror, qui è Valerij Legasov, lo scienziato che guida il contenimento dell’orrore Chernobyl: siamo a livello di Oscar) e quella sofferta e sorprendente di Stellan Skarsgård (un monumento della nostra contemporaneità attoriale, qui presta se stesso a Boris Shcherbina, il funzionario di partito che insieme a Legasov deve risolvere il dramma in atto) – tutto ciò non dà il totale che Chernobyl riesce a manifestare in termini di inquietudine, infedeltà filologica e rigore storico, ammirevole assenza di enfasi, perfezione drammaturgica.
Questa invisibilità al cesio, questa bassa intensità della morte nucleare: tutto ciò è uno dei miti del tempo nostro e uno dei moniti perenni, una sorta di statua equestre invisibile, una specie di Savonarola incorporeo, una bozza di Isaia nel deserto in cui nessuno ascolta e nessuno vede. La rappresentazione del mito, della sua inqualificabile e perdurante attivazione, fa di questa serie un’opera d’arte del presente e plausibilmente del futuro, ammesso che possa perdurare qualcosa in ciò che diciamo essere il futuro, il quale sta mutando, proprio a partire da Chernobyl, poiché l’accelerazione impone una ibridazione genetica al tempo, allo spazio, a qualunque categoria che fu umana e ora è fosforescente, priva di barre di contenimento, priva di boro, avvelenata dallo xenio.
Sono tutti memorabili. Tutto è memorabile.
Mia madre stipò nella mensola in cucina decine di scatole metalliche: contenevano latte in polvere, per i mesi a venire. Non avremmo mai più bevuto il latte. Sotto l’acqua nel lavello sfibravano le foglie larghe della lattuga che si dice “ghiaccio”. Mia madre ci costringeva a passare la spugna bagnata sotto le suole delle scarpe, per eliminare gli atomi instabili. I funghi divennero diversamente velenosi. Le api avevano assorbito radiazioni per settanta generazioni e, insieme al latte, nessun miele sarebbe stato mai più disponibile. Né latte né miele: non c’era dunque più nessuna terra promessa. I vescovi raccomandavano la fede, le piogge incombevano sopra la Selva Nera in Germania e riducevano le tiroidi a variabili problematiche. Ci attivammo iodizzandoci. L’erba dei campi di calcio negli stadi avrebbe comportato Sla e morti meticolose e lente. Le pareti cellulari si affievolirono e si disintegrarono le arterie e le vene si sfarinavano e la morfina non sarebbe servita più a nulla.
E da allora siamo questo, tutte tutti: in attesa del sarcofago di cemento, mummificati ma liberi, l’occidente per sempre si chiamerà Chernobyl, anche se lo ignoreranno le miriadi.