Il New York Times ha pubblicato una lettera firmata da circa 250 dipendenti di Facebook – su oltre trentamila totali – che critica la decisione presa dall’azienda di non sottoporre gli annunci a pagamento dei politici a una verifica sulla veridicità del loro contenuto, permettendo di conseguenza la diffusione di notizie false sulla piattaforma.
Dopo le critiche dai politici, da ultimo l’incalzante confronto tra Zuckerberg e la nuova stella dei dem Alexandria Ocasio-Cortez al Congresso, il social si trova ora a fare i conti con il dissenso dei suoi dipendenti. Mark Zuckerberg lo ha ribadito anche durante l’ultima audizione ai membri del Congresso americano: secondo lui, e quindi secondo Facebook, le pubblicità elettorali non devono essere passate sotto la lente di ingrandimento dei fact-checker, perché sono gli utenti, cioè gli elettori, che devono decidere se il politico dice la verità meno.
In sostanza: un politico può pagare Facebook per mentire nella pubblicità all’interno della piattaforma, perché questo rientra nella libertà d’espressione.
Nella lettera, i dipendenti definiscono le politiche del social network sulle pubblicità dei politici una “minaccia” a ciò per cui Facebook si batte, e sottolineano che “la libertà d’espressione e la libertà di pagare per dire ciò che si vuole non sono la stessa cosa”.
Un pezzo della lettera recita le seguenti parole:
“La libertà di espressione e quella di pagare per spargere un messaggio non sono la stessa cosa. Le nostre attuali politiche in materia di controllo dei fatti per le cariche politiche rappresentano una minaccia per ciò che rappresenta FB. […] Siamo fortemente contrari a questa politica così com’è. Non protegge le opinioni differenti, ma consente invece ai politici di usare la nostra piattaforma come un’arma, prendendo di mira le persone che credono che i contenuti pubblicati da personaggi politici siano affidabili.”
Zuckerberg dovrebbe essere più determinato nel affrontare la piaga della disinformazione politica veicolata sui social media di Facebook e Instagram, come documentato da varie inchieste (tra cui anche Russiagate sull’interferenze elettorali della Russia durante le elezioni presidenziali del 2016).
Anche se rimane di gran lunga in netta minoranza rispetto alle 350 mila persone che lavorano per Facebook, il gruppo di dipendenti propone, quindi, una serie di soluzioni alternative da adottare:
- Applicare il fact-checking anche alle inserzioni politiche pubblicate a pagamento, come con gli altri contenuti pubblicati sui social media;
- Intervenire sull’aspetto visivo degli ad politici in modo tale da rendere facilmente riconoscibile i contenuti sponsorizzati;
- Limitare (regolamentare maggiormente) l’utilizzo di strumenti Facebook per profilare gli utenti e indirizzare contenuti ad hoc a seconda del target, come viene fatto sulla piattaforma per le inserzioni commerciali;
- Rispettare il silenzio elettorale, come è previsto per altri media (come la televisione), possibilmente creando un nuova regola che possa essere applicata in tutto il mondo;
- Introdurre un tetto per le sponsorizzazioni, riducendo la forbice dei finanziamenti per la pubblicità sul social.
Facebook ha anche risposto alla lettera dei dipendenti scrivendo: “Rimaniamo impegnati a non censurare i discorsi politici e continueremo a esplorare ulteriori passi per portare maggiore trasparenza agli annunci politici.”
I lavoratori di Facebook quindi chiedono semplicemente una giusta e corretta comunicazione, regolate dal buon senso e che l’utente non venga ingannato in nessun modo.