di Mario Pesce
Docente di Antropologia culturale e discipline demoetnoantropologiche di eCampus
Note antropologiche sul fine vita al tempo del Coronavirus
Tutti noi sappiamo perfettamente che uno dei momenti principali della vita degli individui e il rapporto che ognuno ha con la morte. Gli uomini nei secoli hanno sviluppato miti e ritualità adatte a superare questo momento di crisi attraverso complessi sistemi simbolici e attività rituali che potessero spiegare la perdita di una persona cara e cosa ci fosse dopo la morte.
È il complesso sistema dei tratti culturali di ogni gruppo umano che rende differenti le modalità di superamento del momento di crisi dovuto al lutto che hanno, però, in comune la volontà di andare oltre l’ignoto e ricreare socialità. Sì, perché una delle “rotture” sociali che abbiamo davanti agli occhi, nel tempo del Coronavirus, è l’impossibilità di espletare la funzione sociale dell’ultimo saluto a chi ci è caro. Nemmeno, in questo momento, è possibile salutare i propri cari mentre vengono portati in ospedale.
Il rito di passaggio del rito funebre è bloccato. Non c’è saluto, neppure le consuete visite a chi è ricoverato o la possibilità di essere vicini al malato. Non c’è elaborazione del lutto. Non c’è possibilità di pianto riparatore. Non c’è condivisione sociale del dolore. Un rito utile alla società, che si guarda e si riconosce nella vicinanza in un momento altamente simbolico, che non si può espletare.
È ormai diventato consueto il termine: “distanza sociale” che prevede una distacco fisico, ma che presiede ad un allontanamento socio-culturale che blocca, in realtà, diversi tipi di socialità. Ed è proprio nella “vicinanza” sociale la possibilità di superare i momenti di crisi ed è nella comunità la facoltà di concepire diversi modi per attenuare tale blocco.
Oggi tutto appunto, è bloccato, quasi cristallizzato. Non c’è risoluzione del momento di crisi perché la socialità è sospesa. Siamo, quasi, in uno stato di liminalità, proprio dei riti di passaggio cari a Arnold Van Gennep. In un certo senso è la stessa socialità che è in crisi e non possiamo neanche sapere, e neanche ipotizzare visti i continui cambiamenti, se ci potrà essere la possibilità di un riscatto che ha connotazioni nella vita sociale e culturale futura degli agenti sociali.
Gilberto Mazzoleni intitola uno dei suoi libri: “Nascita delle umane culture”, in esso analizza, in modo comparativo, i riti funebri e i miti che fondano la morte nelle diverse culture. Quello che emerge è che la morte è assolutamente funzionale alla vita. Ma, sopratutto, è nella ritualità del rito funebre che l’individuo e la società trova aggregazione dopo la disgregazione dell’atto luttuoso.
I rituali, allora, vanno ripensati e va ripensata la socialità che consegue dalla loro buona riuscita. È un tempo stratificato e dilatato che allontana i corpi, è consueto in questi momenti di cosiddetta quarantena perdere la cognizione del tempo e restare distanti anche tra familiari che abitano insieme.
Quindi la crisi della morte è acuita dall’incapacità di superare la crisi stessa e il suo superamento è nell’elaborazione di nuove forme di lutto e, forse in un’ipotesi nemmeno troppo peregrina alla fine della pandemia, pensare ad un lutto collettivo, in una modalità, ovviamente culturale, molto simile a quella del milite ignoto della prima guerra mondiale.
Ipotesi, possibilità, superamento degli ostacoli, distacco e liminalità all’inizio per una riaggregazione infine. Tutto è possibile dipende solo dalla capacità dell’animale uomo di creare e ricreare cultura.