di Mario Pesce
Docente di Antropologia culturale e discipline demoetnoantropologiche di eCampus
Dissimulazione sociale nell’epoca del Covid19
Giorni fa, mettendo in ordine una delle mie librerie, mi imbatto in uno dei testi che durante la mia vita di studente ho più amato: la via delle maschere di Claude Lévi-Strauss.
Sfogliandolo mi sono venute in mente alcune questioni, e riflessioni, relative all’interpretazione cultuale delle maschere, delle loro funzioni sociali, i loro collegamenti con il mito e della barriera profilattica utilizzata nei musei per la loro esposizioni, per mezzo dei vetri protettivi delle bacheche, che vorrei condividere per raccontare un’altra parte culturalmente importante della situazione attuale nella pandemia del Covid19 in Italia.
Nelle culture altre la maschera ha una robusta rappresentazione simbolica che, come raccontato da Claude Lévi-Strauss, come da Gilberto Mazzoleni, Emanuela Monaco o da Giancarlo Scoditti, deve essere indossata, o forse meglio vestita, da un individuo che impersona un personaggio mitico che ha donato qualcosa alla comunità oppure ha insegnato a cacciare o pescare.
Le attuali mascherine, utilizzate per protezione dal contagio, non hanno genesi da una storia sacra, ma da una storia profana, una storia, comunque, accettata dalla comunità che ha una sua validità, in questo caso raccontata da esperti della società, operatori rituali per le storie sacre, operatori scientifici per la storia profana.
In questo senso la comunità accetta il racconto profano (autorevole, scientifico) che il contagio si può arginare, attraverso una barriera profilattica: la mascherina.
I canoni tradizionali delle consuete maschere che conosciamo sono invertiti: nelle maschere della tradizione italiana è nascosta la parte superiore del viso, con le mascherine in uso oggi è celata la parte inferiore del viso: naso, bocca e mento.
Questo preclude una funzione essenziale della micromimica facciale: le espressioni che dimostrano le nostre emozioni. Rabbia, tristezza, felicità, disprezzo, disgusto e sorpresa sono celati, repressi, nascosti. Un’emozione, invece, è espressa in modo evidente dall’indossare la mascherina: la paura. Un’emozione che blocca, che congela, che cristallizza la voglia di relazione. Questa è la restituzione simbolica delle “nuove mascherine”, che come direbbe Claude Lévi-Strauss, crea creature nuove, e che noi potremmo considerare come creature senza emozioni visibili, creature sole e senza possibilità di trasmettere empatia.
Forse sono questi i tratti fondamentali della nuova via delle mascher(in)e al tempo del Coronavirus in Italia, e forse nel mondo, un tipo di mitopoiesi moderna: che racconta una storia profana e comune di contaminazione, distanza e forse riscatto.
La maschera, o mascherina, cambiata nel tipo di impiego è una finzione culturale che racconta, forse, come superare un momento di crisi: la contaminazione porta ad un blocco della socialità che solo la parola, forse, può ricondurre su binari di normalità. La distanza è una modalità personale, visivamente percepibile e che si può ridurre da pratiche sociali condivise e culturalmente accettate. Il riscatto, possibile, in fìeri, è la capacità umana di imparare dai miti, anche quelli nuovo e espressi in modo poco convenzionale come avrebbe detto Gilberto Mazzoleni, e ricreare socialità attraverso nuovi riti di coesione. In definitiva togliersi la mascher(in)a alla fine della pandemia significherà tornare a esprimere emozioni, a creare socialità a tessere relazioni.
Oggi, però, la nuova ritualità è data dal celare il proprio viso, quasi nascondersi per beffare, come nei miti di alcune popolazioni Native Americane, da un anti errore che cerca di farci perdere il cammino.