di Francesco Pigozzo
Docente di Letteratura Francese di eCampus
Si sa, da Marx a Foucault ai decostruzionisti d’oltreoceano, la cultura ‘occidentale’ contemporanea ha imparato dapprima a diffidare dei giudizi di valore scambiati come giudizi di fatto (e volti in realtà a legittimare opinabilissime relazioni di potere), poi a diffidare d’ogni giudizio in quanto ideologico, poi a ridurre l’intera attività conoscitiva e discorsiva umana a ideologia che parla solo di se stessa (per gli esteti dell’autoreferenziale) o al limite delle relazioni di potere che nasconde (per gli indignati del complottismo). Ora il giochino cerebrale e l’abisso etico di questa variante post-moderna del “tradimento degli intellettuali” di cui si inquietava Julien Benda quasi cent’anni fa, si spera che giunga (in fretta) al capolinea sotto i colpi di eventi storico-collettivi tanto “reali” – nei loro effetti tangibili e intersoggettivi – quanto ammonitori circa le responsabilità che l’intelletto dovrebbe assumersi per la sopravvivenza di Homo Sapiens. Propongo qui, da molto umile co-usufruttuario e co-sviluppatore dello stesso, due ambiti di riflessione che spero significativi per chi legge e che trovo esistenzialmente decisivi per chiunque intenda oggi partecipare in modo consapevole alla storia collettiva.
COVID-19 è certamente una crisi ma non è inattesa e non è nemmeno un’emergenza passeggera – al limite è uno scarto (nel senso di François Jullien) rispetto alle nostre precedenti abitudini. Basta scalfire di poco la superficie del discorso mediatico sul “cambiamento climatico” per scoprire che nasconde un gigantesco iceberg intellettuale e politico che da molti decenni documenta, argomenta e persino calcola con una buona approssimazione i limiti sistemici (il sistema essendo il pianeta Terra) alla crescita umana – crescita intesa sia nel senso economico-produttivo che ossessiona le nostre esistenze, sia nel senso demografico. Dai tempi del rapporto di Donella Meadows et al. commissionato dal Club di Roma (1972) ad oggi, la civiltà umana ha vissuto al di sopra dei propri mezzi, cioè prelevando o usurando o annientando risorse in ogni ambito del sistema terrestre (biosfera, atmosfera, criosfera, litosfera, idrosfera e la stessa antroposfera) in misura costantemente maggiore di quella con cui il sistema stesso era in grado di rigenerarle. Il clima è appunto solo un aspetto della faccenda, che è sistemica: non può cioè essere trattata pezzo a pezzo, perché ogni pezzo è interdipendente con l’altro e cambiamenti rapidi in una o più parti del sistema generano effetti caotici, non prevedibili o controllabili. Nel mondo anglosassone è perciò fiorito da qualche decennio un dibattito (e alcune sperimentazioni socio-culturali) legate al concetto di “collapse”. In quello francofono si parla di “effondrements”.
Quando una specie vive al di sopra delle possibilità consentite dalle risorse disponibili nella sua nicchia ecologica, è noto e logico che ciò si traduca in una più o meno drastica riduzione della sua “pressione demografica” su quelle stesse risorse. Il COVID-19 è una componente di questa insostenibilità della civiltà umana che comporta, in ultima analisi, di pagare prezzi demografici. Ora, nel corso del XIX secolo le convinzioni scientiste e positiviste, legate allo sviluppo possente delle forze dell’industrializzazione, avevano fatto pensare che l’umanità si fosse definitivamente emancipata dalla ferrea legge biologica della “pressione demografica”. Gli studi sui limiti fisici alla crescita, nel secondo Novecento, hanno invece riscoperto l’intatta validità di quella legge. Gli esseri umani hanno pur sempre la possibilità di adempiervi tramite una maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse (limitate), invece che con una drastica e traumatica ecatombe (avvenga essa per effetto di virus, catastrofi o guerre per le risorse e altri tipi di tensioni sociali) – ma per riuscirvi, non basta loro puntare su scienza e tecnologia.
E qui sta il secondo ambito di riflessione che il COVID-19 non inaugura affatto, ma può finalmente rendere di dominio comune. La sfida che abbiamo di fronte non è solo scientifica e nemmeno solo tecnologica – è anche, direi prima di tutto, politica e organizzativa. Scienza, tecnologia e politica sono i tre grandi protagonisti della crisi epidemiologica attuale – nel bene e nel male. La crisi ci insegna che la scienza non è certezza ma, al contempo, è l’essenza stessa della nostra sopravvivenza – in una realtà che ci si rivela intrinsecamente dinamica, complessa e sostanzialmente imprevedibile nei suoi dettagli concreti. Ci insegna che la tecnologia è in verità un bene pubblico ma ancora iniquamente ripartito e pericolosamente privatizzato nel suo stesso sviluppo… eppure la tecnologia consente a ciascun individuo e alla specie nel suo complesso di co-evolvere materialmente col pianeta (preferisco, con Edgar Morin e Mauro Ceruti l’idea di co-evoluzione a quella di adattamento: e se qualcuno pensava che l’adattamento fosse ormai ribaltato in modifica dell’ambiente a piacere, da parte di Homo Sapiens, speriamo sia adesso chiaro che si trattava appunto di co-evoluzione, perché l’ambiente resta reattivo). La crisi ci insegna infine che la politica, e le sue istituzioni, sono la chiave che consente di garantire, distribuire, sviluppare beni comuni – che consente di governare e orientare l’interdipendenza tra gli esseri umani. Ma come è organizzata oggi questa interdipendenza e come sono organizzate la politica e le sue istituzioni? La prima è globale e multiscalare, le seconde sono disastrosamente particolaristiche, ahinoi. L’effetto domino ritardato dei lockdowns nei vari paesi del mondo è l’immagine più limpida e inquietante di questa inadeguatezza organizzativa tra il livello di interdipendenza che gli esseri umani hanno raggiunto e le istituzioni cui demandano di governarla e orientarla. La Cina che ritarda la comunicazione della crisi interna, per timore di danneggiare la propria immagine ed economia; il resto del mondo che, in modo scoordinato paese per paese, pensa al massimo sia sufficiente controllare i voli provenienti dalla Cina o, peggio, identifica con i cinesi i possibili “appestati” da isolare; e poi la medesima esperienza, nel piccolo dell’Italia (tra Codogno e il resto della Lombardia, tra la Lombardia e la penisola…), e nel più grande dell’Europa (tra l’Italia e gli altri Stati UE, tra il Sud e il Nord)… Una catena di vedute ristrette e particolaristiche che non si accorgono di quanto l’interdipendenza umana sia complessa e ingovernabile fintanto che le istituzioni e la politica restano confinate nell’alternativa tra cooperazione o competizione fra Stati e popoli ben distinti tra loro. Il COVID-19 mette alla berlina l’assolutezza di questa distinzione, e interroga la nostra capacità di creare istituzioni e una politica capace di superarla realmente – di guarirci dalla malattia della divisione e di renderci, tutti e ciascuno con la sua feconda irriducibilità, sovranamente partecipi di più popoli, di molteplici comunità organizzate a più scale territoriali. L’Unione Europea ha concretissimamente in mano la possibilità di offrire una risposta positiva e operante su scala globale a questa interrogazione: a noi cittadini del continente di concretizzarla, di farci taumaturghi.