“Parla con lei. Contrasto alla violenza sulle donne”, intervista al Prof. Avv. Michele Filippelli

da | Mag 20, 2022 | Eventi, Mondo eCampus

Il Prof. Avv. Michele Filippelli sarà tra i prestigiosi ospiti del Salone internazionale del libro di Torino dal 19 al 23 maggio, nonché relatore del convegno “Parla con lei. Contrasto alla violenza sulle donne” che si terrà il 20 maggio alle ore 19.30 presso la Sala Rosa.

Il Professor Filippelli è docente di diritto privato all’Università eCampus, direttore scientifico della rivista Alcmaeon, della Collana giuridica I Saggi del Diritto, di Radio Democede, della Scuola Filolao e dell’alta formazione della Fondazione Scuola Forense di Cosenza.

Professore, qual è il quadro legislativo e normativo attuale in materia di tutela delle donne? Come si è evoluto?

La disciplina dello status della donna non ha trovato, a tutt’oggi, una sua definita collocazione anche se è mutata radicalmente nei tempi a noi più vicini. Il suo ruolo, a partire dall’ultimo dopoguerra, ha avuto una serie di sviluppi che ha inciso non solo nel suo ruolo all’interno della famiglia e della società, ma anche nella valorizzazione della figura della donna stessa perché venisse “riabilitata” e considerata alla pari della figura maschile che, per limitarci alla società occidentale, è stata dispoticamente dominante nel pubblico e nel privato.

La tutela normativa è, dunque, intervenuta perché alla base vi era una abissale discriminazione, un atteggiamento nei confronti della figura femminile spesso e volentieri lesivo delle sue prerogative fondamentali della dignità, dell’onore e del decoro della figura femminile nei diversi ruoli familiari e sociali. Il fenomeno discriminatorio, prettamente soggettivo, è sempre risieduto e risiede tuttora, nella cultura umana, sfociando in atti illeciti di rilevanza giuridica che espongono i responsabili a sanzioni civili e penali.

Meritevole di richiamo è la legge n. 69/2019, più conosciuta come “codice rosso”, che è intervenuta con delle modifiche sia al codice penale, sia al codice di procedura penale finalizzate a una maggiore tutela della donna vittima di violenza, consentendole di potersi difendere in un contesto più sicuro. 

Le principali novità sono, per esempio, l’immediatezza con la quale la polizia giudiziaria deve informare, anche oralmente, il pubblico ministero di una circostanza di violenza sulle donne; la celerità con cui lo stesso pubblico ministero deve ascoltare la persona offesa entro 3 giorni dall’iscrizione della notizia di reato o ascoltare chi ha denunciato i fatti, così coinvolgendo figure terze e aprendo ad altri scenari di tutela indiretta; il divieto di ritardo nella procedura descritta proprio per evitare che vi sia un vulnus della ratio della norma entrata in vigore.

Sono state inasprite le pene e si tutela la donna non solo nel contesto sociale ma anche e in particolar modo in quello familiare. Pensiamo ai casi in cui la donna viene indotta o costretta al matrimonio. Tutto ciò costituisce una violenza psicologica poiché la volontà manifestata non corrisponde a quella interiore.

Su questo tema si è espresso anche Pietro Grasso nel 2015 affermando che “le ‘ndrine sono vere e proprie famiglie di sangue, da cui è ancora più difficile immaginare di liberarsi per collaborare con la giustizia. Anzi, spesso si allevano i figli fin dalla più tenera età con l’idea della faida, della vendetta, dell’odio nei confronti della famiglia rivale”. Perché è così difficile per le donne di ‘ndrangheta diventare collaboratrici di giustizia? Come si sviluppa e che forme ha la violenza nei loro confronti?

La violenza è un fenomeno umano che si esprime con diverse modalità. Vi sono violenze che spesso e volentieri non vengono considerate ma che sono drammatiche e si consumano all’interno di alcuni contesti criminali. Mi riferisco alle donne di ‘ndrangheta vittime di violenza perché organiche alle famiglie.

Lei ha citato il presidente Pietro Grasso, al quale mi lega una meravigliosa esperienza di un convegno che si è tenuto alla Camera dei Deputati nel 2017. In quella sede si presentava proprio un’opera a mia cura [Indottrinamento mafioso e responsabilità genitoriale, ndr.] che poi nel tempo divenne con grande orgoglio un bestseller da cui scaturirono un documentario trasmesso in Australia e un film Rai1 dal titolo “Liberi di scegliere”.

La responsabilità genitoriale è un istituto relativamente giovane. È stato il punto di arrivo di un percorso partito dalla patria potestà, successivamente mutato in potestà genitoriale. I genitori, oggi, sono investiti non di un diritto, ma di una responsabilità verso i figli e nell’esercizio dei loro diritti. Decisiva è stata la Dichiarazione universale sui diritti del fanciullo di New York del 1989, dove è stato sancito il principio del superiore interesse del minore.

Nelle famiglie di ‘ndrangheta spesso accade che la donna è vista come la figura essenziale preposta all’indottrinamento del minore secondo i valori deviati della criminalità organizzata, allontanandolo dai principi del nostro ordinamento giuridico e privandolo di un futuro e di un contesto sociale sano in cui vivere e crescere. È in questo caso che la donna inizia a subire un conflitto interiore.

La ‘ndrangheta si differenzia dalla mafia perché, da un lato, l’aspetto costitutivo è rappresentato dal sangue, quindi dalla famiglia, i cui matrimoni vengono spesso concordati. Questo ci fa anche comprendere come sia distorto il concetto di famiglia e di creazione di una famiglia delle organizzazioni mafiose. Dall’altro lato si differenzia per la finalità perché, se per la mafia è l’incremento del patrimonio della cosca, per la famiglia di ‘ndrangheta l’essenza è il sangue, cioè la discendenza. La donna, quindi, diventa non solo strumento di procreazione, ma anche figura utile all’indottrinamento della prole ai valori distorti.

Il giudice Di Bella ha dato dimostrazione di quante donne, per amore dei propri figli, hanno capito che quell’ambiente esercitava violenza non solo su loro stesse ma anche sui minori. E quindi hanno compreso la differenza tra l’omertà, la vendetta e il rispetto ai principi di legalità e di autodeterminazione. È stato in quel caso che la donna ha compreso la violenza diretta o indiretta che si trovava a subire. Da un lato, la stessa donna non aveva un percorso di crescita personale perché veniva vista come oggetto di procreazione e soggetto di formazione deviata del minore. Le ambizioni personali delle mogli di ‘ndrangheta sono inesistenti. Dall’altro, vi è il sacrificio del futuro del proprio figlio, prevalendo il superiore interesse della famiglia criminale sul principio del superiore interesse del minore. Tutto ciò non è ammissibile.

Vi sono casi in cui donne coraggiose hanno avuto la forza di ribellarsi ai mariti e alle loro famiglie,  denunciando i fatti nell’interesse dei figli, affinché questi avessero le stesse occasioni, le stesse possibilità degli altri bambini.

Quanto spesso accade che la donna si ribelli e denunci la sua famiglia? Il riconoscimento del fatto che questa donna sia vittima di violenza succede solo in seguito alla nascita di un figlio?

Non c’è una regola, perché la donna prima ancora di essere vittima come madre è vittima come moglie. Non c’è un momento in cui vi è un cambio di ragionamento. C’è però da dire che non è neanche frequente. Sono ancora pochi i casi perché molteplici sono i pericoli. Stiamo parlando di un aspetto molto delicato. Alcune vicende le ho conosciute personalmente, confrontandomi con queste donne. Ma ci sono anche storie tristi che non hanno avuto un lieto fine. È chiaro che tutto ciò comporta una profonda riflessione nella donna che deve assumere una decisione irreversibile.

Occorre – ed è anche questo il titolo del convegno dove sarò relatore al Salone Internazionale del Libro di Torino – parlare con la donna. “Parla con lei” è un invito perché si può aiutare una donna anche indirettamente. Anche soltanto apprendendo delle informazioni le donne possono essere aiutate. La legge n. 69/2019 dispone che il pubblico ministero deve entro 3 giorni non solo ascoltare la persona offesa, quindi la donna vittima di violenza, ma anche chi ha denunciato i fatti di reato. Quindi interviene la figura di colui il quale può parlare con la donna, assumere informazioni e consegnarle all’autorità competenti per poter intervenire tempestivamente.

La donna pertanto da un lato vive giuridicamente un momento di tutela forte, ma questa tutela forte è dettata da fenomeni che ci lasciano ancora oggi interdetti. Spesso capita di ascoltare notizie anche al telegiornale che ci saremmo aspettati di non sentire più.

La violenza sulle donne, dunque, deve essere prevenuta prima che sanzionata; non bisogna lasciare la donna sola, neanche nella prima fase della vita. La donna prima di diventare donna è stata adolescente, prima ancora è stata infante. Il percorso di tutela non deve avere limiti, dovrà essere un percorso che accompagni costantemente la persona, fin quando tutto ciò non diventi anche una forma mentis e cambi quella inaccettabile cultura di superiorità maschile che produce solo danni e lesioni a chi la subisce.

C’è stato negli ultimi anni un cambiamento culturale della figura della donna nella ‘ndrangheta? Se sì come, se no cosa si può fare per facilitare questo cambiamento?

Il fenomeno mafioso si combatte anche applicando le limitazioni alla responsabilità genitoriale contenuta nel nostro codice civile.

Quando avvennero le prime pronunce con cui si iniziarono ad adottare i provvedimenti di limitazione e decadenza della responsabilità genitoriale ai padri e alle madri di ‘ndrangheta sui figli, ci fu una spaccatura in Italia tra giustizialisti e garantisti. Ci furono coloro che reputarono giusto il principio del superiore interesse del minore rispetto al contesto in cui vive e coloro che, invece, reputarono ingiusto e abnorme l’arresto giurisprudenziale nonostante l’appartenenza conclamata alla famiglia di ‘ndrangheta. Insomma, non fu così dirompente e così unanime la semplice applicazione di alcuni articoli del codice civile.

Il contrasto al fenomeno mafioso, al fenomeno della ‘ndrangheta, della criminalità organizzata in tutte le sue manifestazioni è un insieme di atteggiamenti, di condotte. Anche la tutela alla donna può contribuire al suo indebolimento. Il giudice Giovanni Falcone diceva che la mafia è un fenomeno umano ed essendo tale, com’è nato, prima o poi finirà. Certo, non ci ha detto quando, perché ovviamente non ha avuto il tempo di conoscere l’evolversi del fenomeno. Noi dobbiamo comprendere però che la criminalità organizzata sta mutando. Dal berretto e dalla lupara, il mafioso oggi ha conseguito lauree e indossa la cravatta. Non è più così distinguibile come in passato.

Ed è questa la fase più rischiosa perché la criminalità organizzata sta tentando di riciclarsi nei meandri dello Stato, nella attività economica, cercando di tranciare, apparentemente, i legami con quella forma criminale che siamo stati abituati a conoscere. La tutela delle figure deboli, vittime di organizzazioni criminali, contribuisce a sostenere la causa del principio di legalità e del contrasto al fenomeno mafioso e ‘ndranghetista.

Per concludere, sarà uno dei relatori del talk del Salone internazionale del libro di Torino “Parla con lei. Contrasto alla violenza sulle donne” che si terrà il 20 maggio alle 19.30 presso la Sala Rosa. Ci anticipa qualcosa riguardo questo convegno?

Sarà un momento interessante e un momento di profonda riflessione. Parteciperanno volti noti che si occupano di sociale, come Jo Squillo che presiede l’associazione Wall of Dolls a tutela della donna, Beppe Convertini, conduttore Rai 1, che sensibilizza spesso e volentieri il tema nelle sue trasmissioni, Mariarosaria Della Corte, avvocatessa che si occupa molto di diritto matrimoniale e di diritto di famiglia, Giuseppe Maria Pierro, quale editore e  presidente dell’Osservatorio Politiche Sociali.

Desidero ringraziare l’Ateneo E-campus per questa intervista; l’Università si è dimostrata sensibile e attenta al tema discusso, sostenendomi in questa prestigiosa edizione, la XXXIV del Salone internazionale del Libro.