Una boccia di pochi centimetri di circonferenza, per molti pesci, è tutto il mondo conosciuto. Ma chissà cosa passa per la testa di questi piccoli animali mentre, con fare arrendevole, sguazzano nei nostri acquari domestici. Una cosa tuttavia è certa: i pesci, soprattutto quelli allevati in cattività, possono soffrire di depressione. A confermarlo è una ricerca ad opera del Dipartimento di Scienze Biologiche e Ambientali dell’Università Troy, in Alabama. Il professor Jilian Pittman, a capo del team di ricerca, ha individuato marcate analogie tra le persone depresse e i pesci che nuotano sul fondo degli acquari: entrambi, a modo loro, manifesterebbero perdita d’interesse verso la vita.
Se nuotano sul fondo sono infelici
Proprio come gli individui che, per malcontento, giacciono a letto per giornate intere, i pesciolini che bazzicano le acque basse delle vasche tradiscono mancanza di stimoli. Se la bestiolina nuota in superficie sarebbe invece entusiasta e curiosa di esplorare. Lo studio in oggetto non è stato promosso al solo scopo di indagare sulle abitudini e i comportamenti di questi affascinanti vertebrati, ma anche per mettere a punto nuovi farmaci volti a intervenire sulla malattia dell’era moderna: la depressione. Pittman, intervistato dal New York Times, ha spiegato: “la neurochimica dei pesci e dei loro proprietari è così simile da far spavento. Tendiamo a classificarli come organismi semplici ma c’è molto che ancora non sappiamo di loro. In questi animali si osserva la perdita di interesse verso le cose, la natura e la vita tipica dei soggetti depressi”. A suffragare le teorie del luminare interviene Culum Brown, biologo comportamentale della Macquarie University di Sidney, il quale afferma: “le persone affette da depressione sono introverse, chiuse, tendono a isolarsi. Lo stesso vale per i pesci”.
Per farli guarire basta poco
Qualora siate già in apprensione per lo stato emotivo delle vostre bestiole acquatiche potrebbero tornarvi utili i suggerimenti di Victoria Braithwaite, docente di biologia marina presso la Penn State University, la quale sostiene che la mestizia, nei pesci d’appartamento, sia una questione risolvibile. Sarebbe sufficiente installare nell’acquario qualche roccia e alga nuove per risvegliare, negli individui più tristi, la voglia di esplorare. Le analogie tra pesci e umani, a detta di molti luminari, sarebbero molte di più di quelle messe in luce dall’Università di Troy… Il paleontologo americano Neil Shubin sostiene che l’uomo discenda dai pesci: le sue controverse teorie poggiano sul ritrovamento, nell’Artico canadese, di un pesce fossile risalente a 375 milioni di anni fa, munito di collo e mani. È possibile che pesci vertebrati siano lontani parenti della specie umana? Shubin ne è convinto e afferma che alcuni nostri limiti fisici siano un retaggio degli antenati d’acqua: ginocchia deboli per sopportare il peso del corpo, sistema circolatorio inefficiente e ernia inguinale: “Queste caratteristiche – spiega Shubin – sono lo scotto che l’uomo ha dovuto pagare per essere disceso dai pesci”. Se così fosse, l’adagio “sano come un pesce” si confermerebbe mera retorica.