Giovedì primo novembre, da Singapore a New York, passando per Londra e per la sede in California, migliaia di dipendenti Google hanno interrotto il lavoro per denunciare la gestione delle molestie sessuali interne al gigante del web.
I dipendenti di 20 uffici dislocati in 3 diversi continenti sono scesi in strada per protestare contro le politiche omertose che negli ultimi anni hanno visti implicati alti responsabili come Andy Rubin, il padre di Android.
La protesta e la rabbia dei manifestanti è esplosa dopo la pubblicazione di un articolo del New York Times in cui si denunciavano fatti accaduti nel 2013. Il NYT ha sostenuto che dall’anno della nascita di Google, Page e il co-fondatore, Sergey Brin, hanno favorito una cultura “permissiva” a lavoro.
I dipendenti Google criticano infatti l’azienda di non fare nulla di incisivo per smorzare l’attitudine alle molestie, al contrario di quanto sta facendo per annichilire i moti razzisti e sessisti. Sotto accusa, in particolare, c’è il ricorso obbligatorio interno che in pratica priva le vittime del diritto di ricorrere all’azione in giustizia.
In un tweet, Meredith Whittaker, ingegnere e organizzatrice della protesta, scriveva: «La marcia di protesta è reale e molto stimolante. Centinaia di persone stanno chiedendo un cambiamento strutturale, non solo pubbliche relazioni dal suono inclusivo».
Ogni dipendente ha lasciato sulla propria scrivania un biglietto con scritto: «Sono uscito perché insieme ad altri colleghi e collaboratori vogliamo protestare contro le molestie sessuali, le condotte inappropriate, la mancanza di trasparenza e una cultura del lavoro che non funziona per tutti e per ottenere un vero cambiamento sul trattamento delle donne in azienda».
Per dare risalto alle proteste sono stati creati l’account e l’hashtag #GoogleWalkout.
In una email ai dipendenti, alla vigilia della protesta, Pichai scriveva di essere «profondamente dispiaciuto per la azioni del passato e per il dolore che hanno causato ai dipendenti. Se solo una persona a Google ha vissuto un’esperienza come quelle descritte dal New York Times, allora non siamo l’azienda che aspiriamo a essere».