Sono passati cento anni dalla nascita di Ingmar Bergman e per l’occasione, dal 5 novembre, il suo più celebre capolavoro Il settimo sigillo torna nelle sale cinematografiche nella versione restaurata dallo Svenska Filminstitutet, grazie all’impegno della Cineteca di Bologna nel voler riportare i grandi classici del passato sul grande schermo per cui furono realizzati.
La trama è nota a tutti. Su una spiaggia danese, un cavaliere reduce dalle Crociate incontra la Morte, incarnata in un uomo vestito di nero, venuta a portarlo con sé. Il crociato però non è pronto a morire senza opporsi e ha il sangue freddo per sfidare il tristo mietitore a scacchi: potrà vivere finché la partita continuerà e se riuscirà a batterlo avrà salva la vita.
Bergman aveva 39 anni quando concepì Il settimo sigillo, una delle pellicole più iconiche della sua filmografia, ma l’opera ha origine fin dalla sua infanzia: «Da bambino mi capitava talvolta di seguire mio padre (un pastore luterano, ndr) nei suoi spostamenti quando doveva officiare messa nelle piccole chiese di campagna dei dintorni di Stoccolma. Mentre mio padre parlava dal pulpito, e i fedeli pregavano, cantavano o ascoltavano, io concentravo la mia attenzione sul mondo segreto della chiesa, costituito da volte basse, mura spesse, profumo di eternità, luce solare che tremava sulla strana vegetazione dei dipinti medioevali e sulle figure scolpite sul soffitto e sulle mura. C’era tutto ciò che la fantasia può desiderare: angeli, santi, dragoni, profeti, demoni, bambini. C’erano animali estremamente spaventosi: i serpenti del Paradiso, l’asino di Balaam, la balena di Jonas, l’aquila dell’apocalisse… In un bosco, la Morte era seduta e giocava a scacchi con un cavaliere…»
Una suggestione infantile, quella di Bergman, che cresce e si rafforza con la scoperta di un affresco anonimo della fine del 1300 in una chiesa di campagna nel sud dello Småland, raffigurante un cavaliere con il suo scudiero, una strega al rogo, un fabbro e diverse altre figure tipiche della Svezia medievale. È proprio da questo dipinto che, nella mente del regista, si fa strada l’idea di un progetto teatrale in un unico atto, Pittura su legno (1954), realizzato per un’esercitazione dei suoi allievi alla scuola di teatro di Malmö, che evolve poi in una versione radiofonica e successivamente, con la complicità dei Carmina Burana di Carl Orff, e l’idea definitiva di questo film.
Il progetto verrà però realizzato soltanto dopo il successo internazionale di Sorrisi di una notte d’estate, quando fu nelle condizioni di imporre al produttore Dymling un ultimatum: «Ora o mai, Carl Anders!». Il progetto fu così accettato, seppur con un budget limitato e soltanto trentasei giorni per realizzarlo. Bergman riscrisse cinque volte la sceneggiatura e diede il ruolo della Morte a Bengt Ekerot, un attore con cui aveva già lavorato molto e di cui si fidava ciecamente: «Eravamo d’accordo sul fatto che la Morte dovesse portare una maschera da clown, quella del clown bianco, o, meglio, una combinazione tra la maschera da clown e il teschio». Per la parte del cavaliere, invece, fu ingaggiato il grande Max von Sydow, agli esordi della sua carriera cinematografica.
Il settimo sigillo ottenne il Premio Speciale della Giuria a Cannes, ex aequo con l’opera di Andrzej Wajda I dannati di Varsavia, il Gran Premio dell’Accademia Francese del Cinema e venne acclamato in tutta Europa e negli USA come un vero capolavoro. In Italia fu distribuito come vietato ai minori di sedici anni, divieto che venne tolto in seguito al taglio della sequenza in cui compariva il cadavere putrefatto di un pastore, tuttavia la censura non si fermò qui: diverse frasi e dialoghi furono stravolti e sostituiti per limare ed edulcorare le sequenze più aspre e irriverenti della sceneggiatura di Bergman. La nuova versione restaurata che torna nelle sale corregge gli errori della censura, permettendo anche al pubblico italiano di apprezzare la pellicola nella sua completezza e originalità, così come ideata dal regista.
«Il settimo sigillo è uno dei pochi film che mi stiano veramente a cuore, ma non so perché – scriveva Bergman – Non si tratta, infatti, di un’opera priva di pecche. Viene fatta funzionare grazie ad alcune pazzie, e si intravede che è stata realizzata in fretta. Non credo però che sia un film nevrotico; è vitale ed energico. Inoltre, elabora il suo tema con desiderio e passione».