Sfrattato dalla sua abitazione, il cantante più bohémien d’Italia ha investito la nazione come un ciclone. Da Asia a Vespa, la vita esagerata di Morgan incarna lo spirito del tempo e dello spettacolo
Esce dalla casa, dopo avere citato i sonetti di Shakespeare agli ufficiali giudiziari che eseguono lo sfratto, è vestito con una marsina bianca che nessun sarto sul pianeta ha mai realizzato, perché una simile fantasia manca al più azzardato stilista e al meno tetragono tra i sarti. La capigliatura è un’onda di Hokusai, bianca, fonata, serotina, in pendant con la giacca a falde a coda di rondine. Insomma, non è lo sfrattato medio italico – e questo si sapeva da subito. L’eloquio, naturalmente ricercato, stupirebbe chi ha esaltato le prodezze lessicali di Maurizio Sarri nella fluviale conferenza stampa di presentazione alla Juventus (la Gazzetta dello Sport ha elevato l’allenatore più sdrucito del mondo al ruolo di un etimologo che neanche Castiglioni e Mariotti, quelli del dizionario latino-italiano).
Eccolo, Morgan: continueremo a dire questo: eccolo.
Poiché, cacciato dalla bicocca più o meno pregiata, ha invaso l’infosfera, trovando ospitalità ovunque, in tv, sui social, nei notiziari video e audio, nei cuori di milioni di italiani, che sembrano infartuare per un nonnulla. Il caso Morgan è di fatto un nonnulla, ma anche no. È emblematico del grande Nonnulla Italiano, all’interno del quale si pone come qualcosa: anzi, la Cosa. Si dovrà pur ragionare intorno al fatto che una trasmissione, The Voice of Italy, sintetizza alla perfezione The Big Nowhere della nazione (e infatti ci siamo occupati di Elettra Lamborghini e di Gué Pequeno: con Morgan, fanno i ¾ della giuria), peraltro enunciando che la voce emessa dal Paese è proprio questa roba: la Roba. Un tempo “la roba” era un momento topico della più devastante formazione scolastica di ogni italiana e italiano: erano i Malavoglia di Verga. Poi, nei Settanta, “la roba” occupò la produzione di massa di paradisi artificiali, che erano naturali inferni. Ora “quella roba lì” è letteralmente quella roba lì: tutto il cosale italico, il collante costituito da ciò che un tempo fu l’immaginario collettivo e ora è l’incubo perpetuo di quei big data che mangiano ed espellono: noi, quelli coinvolti nell’irradiazione dello spettacolo italiano, quelli che non smettono di ricordare chi è Lory Del Santo e non cessano di scordarsi di Antonio Zequila.
Torniamo a Morgan, anche se uno preferirebbe allontanarsene: torniamo a Morgan. Bisogna qui stendere un pubblico elogio di questo artista che definire polimorfo è un eufemismo, ma non si sa che genere di eufemismo sia. La prima qualità di Morgan è che non sta fermo, perciò è polimorfo. Sembra risuonare da quando esiste Morgan la sua voce roca e inclinata al basso parlato milanese, un’inflessione che di solito è lieve come una cassoela preparata in Ucraina ai tempi di Chernobyl e che invece nell’ex Bluvertigo rilancia un canone imprescindibile, che va da Celentano a Gaber a Jannacci a Cochi e Renato. La trasformazione in icona di Marco Castoldi, in arte Morgan, rientra nei paradigmi del viaggio dell’eroe, descritto da Joseph Campbell. È un’epica, un’invenzione continua, una coerenza dell’incoerenza, l’edificazione di una bohemian rhapsody che dal Gallaratese invade il pianeta. La fisionomia secca e stilizzata di Morgan è un’invenzione assoluta e clamorosa, come se i Kraftwerk fossero stati creati tra Giambellino e Barona. Forse soltanto Jovanotti è stato in grado di raggiungere vette iconiche così penetranti e, a tutti gli effetti, geniali. Morgan si manifesta come un Contropinguino di Batman ibridato coi cromosomi con Marcel Marceau. Naturalmente nulla di tutto questo sarebbe possibile, se non fosse un grandissimo musicista. Questo visionario rinnova la tradizione dropout del rock, con il maledettismo che si porta dietro e che costituisce una legge fatale della comunità artistica, in qualunque era e nello showbiz odierno meno assai di quanto accadesse da Omero in poi fino a oggi.
La strutturazione del Divo è un affare che, sebbene risaputo nei modi e nei tempi, resta comunque un’impresa artistica a sé e inevitabilmente coincide col percorso esistenziale. E’ il motivo per cui non ci sarebbe da sorprendersi affatto per la persistenza del fantasma di Asia Argento nel corso della tormentata vicenda di Morgan: è l’esistenza di lui, non quella di lei, a determinare la permanenza della radiazione. A conti fatti ciò ha una sua spiegazione in questo: Morgan è un artista e Asia Argento no. Chiamata al palcoscenico planetario fin dai natali, abilissima nel costrutto del suo lato dark, Asia Argento non ha segnato soltanto in parte l’immaginario artistico, ma ha determinato quello popolare, tra apici clamorosi, tra cui appunto la famiglia insieme a Morgan, e tragedie impressionanti, come il suicidio del suo compagno Anthony Bourdain, e impegni politici acuti, come il #Metoo – fatti che appartengono non alla storia dell’arte, bensì alla vita, e che lo spettacolo ingigantisce a dismisura, facendo del Divo un fantasma incarcerato in un’eternità ambigua, che incombe sul mondo grazie all’inarginabile fantasia dei popoli.
Da X-Factor al casino con Maria De Filippi, passando per le cronache dei quotidiani cartacei e on line, anche a Morgan succede di essere costretto a rispondere alla vita, traslata in un’iridescenza che acceca lui e noi spettatori, ma che conduce lontano dalle longitudini dell’arte. L’ingiunzione di sfratto per pignoramento è soltanto l’ultimo segnale della realtà vile e quotidiana, che bussa rovinosamente alla porta di uno che farebbe la bohème, ma possedendo un appartamento. In tutto ciò lo stile Morgan non ha fatto altro che elevare la persona al di sopra del personaggio e ci vogliono coraggio, tempismo e vasta apertura alare per riuscire in questa impresa. Per esempio, dicendo che Jovanotti, Vasco e Ligabue, piuttosto che aiutare, anche economicamente, il loro amico, hanno girato al largo, perché sono impegnati a comporre e registrare il nuovo disco. Oltre a renderci contenti del fatto che una stagione musicale pop ci regalerà nuovi ep di questo trio mainstream, rileviamo che Morgan è consapevole di una cosa precisa: i tre tenores separati sono convinti che fare un disco sia qualcosa, mentre di fatto non lo è. Un’ammissione candida, per nulla perfida, circa lo stato di esistenza in morte di qualunque fenomeno spettacolare o artistico nell’oggidì. Morgan, mettendo piede fuori da casa sua per l’ultima volta, punta il dito e dice che il re è nudo.
Così pure avviene con il denaro, che sarebbe poi l’esito più solido dell’immane vortice spettacolare, in cui ogni divo è centrifugato e trasformato. Il grano abita le parole del cantante milanese in modo talmente innocente, da evitare ogni sospetto di colpevolezza. Dice questo prestidigitatore della sincerità: ho fatto un sacco di soldi, tutti mi stavano vicino perché volevano i miei soldi, a me dei soldi non frega nulla e quindi glieli ho dati, adesso non ci sono più soldi. Esiste una articolata tradizione che porta l’uomo spettacolare a denunciare pubblicamente il disastro economico, da Pupo a Marco Baldini a Massimo Boldi. Morgan non ne fa parte: egli denuncia ciò che è stato e continua a essere, al di là dei vizi o delle suppliche implicite di queste dolorose confessioni.
L’altra sera, a Porta a porta, osservare Bruno Vespa inzigare, ronzare intorno, azzimare, renzizzare, plasticizzare l’artista che sedeva con sublime impertinenza al pianoforte, una volta di più, ha disvelato la reale consistenza dello spettacolo italiano: il nulla corrosivo che ci abita dentro e che da dentro emette la Voce dell’Italia. A questa voce ha risposto una tonalità roca e lombarda, un pizzetto che pare cristallizzato da una cipria – era la voce della sincerità e si chiamava Morgan.